Lo svolgimento della battaglia di Solferino e San Martino
di Costantino Cipolla
La battaglia passata alla storia come quella di Solferino e San Martino è senza ombra di dubbio la più importante e la più grande dell’intero Risorgimento italiano, uno scontro senza remissione di colpi, sanguinosissimo, vissuto completamente da tutti gli eserciti al massimo delle loro possibilità reali. Dalla mattina alle 3 alla sera alle 21 del 24 giugno 1859, poco meno di 250.000 uomini si scannarono, a vario titolo e per tempi e luoghi diversi, più che poterono al comando diretto di due imperatori (ed un Re), determinando un vero e proprio bagno di sangue. Nel suo genere, siamo di fronte ad una delle più grandi battaglie di sempre (forse Lipsia o Sedan…). Riassumendola nelle sue linee essenziali, si cercherà di descriverne in maniera sufficientemente fedele e accurata lo svolgimento.
È ancora prima dell’alba quando le truppe alleate si mettono in moto con passo di marcia onde raggiungere le loro posizioni con il fresco (relativo) della mattina. Si muovono, da Nord a Sud, lungo quattro direzioni che poi diventeranno quelle dei singoli scontri in cui si articolerà la battaglia nel suo complesso. La meta comune è quella di posizionarsi sul Mincio, passando per Pozzolengo, Madonna della Scoperta, Solferino e Medole-Guidizzolo che si presumono presidiate, ma niente di più. Sul versante opposto, si parte ben più tardi. Si pensa a rifocillare i soldati che si reputano piuttosto stanchi dopo tante marce, anche se di fatto ci si è fatti anticipare da avanguardie che si sono appostate saldamente su alcune posizioni ritenute migliori (Solferino) o trincerate per bene dentro centri abitati (Medole). Di fatto, la battaglia prende così corpo quasi per autocombustione senza che nessuno l’abbia pianificata come tale. Tutte le decisioni rilevanti saranno prese in corso d’opera, anche se nessuna di queste modificherà la sua caratteristica essenziale di una battaglia di incontro.
Sul primo asse, da San Martino a Pozzolengo, i piemontesi incrociarono ben presto (prima delle sette) alle porte di Pozzolengo gli austriaci del Benedek. Cominciarono i primi scontri che, però, si tradussero nella conquista e nel mantenimento del pianoro di San Martino da parte di quest’ultimi. Fu un passaggio decisivo, perché tutta la giornata fu un assalto piemontese ripetuto a questa collina con alterna fortuna, ma di fatto senza mai potersi attestare su di essa. Insomma, si lottò sempre dal basso in posizioni di svantaggio. Vi furono tregue. Arrivarono nel tardo pomeriggio rinforzi (la brigata Aosta, valorosissima). Intorno alle sedici e trenta si scatenò un temporale tremendo che sospese di per sé lo scontro, anche se questo cessò solo col buio e con il ritiro ordinato, ma con perdite varie, degli austriaci.
Il secondo asse, quello centro-nord, sulla linea Madonna della Scoperta-Redone (un fosso che confluisce nel Mincio) fu quello più modesto e forse più accidentale di tutti e quattro (quelli a Sud furono, come sappiamo, indirizzati). Anche qui combatterono truppe italiane, contro truppe austriache ed anche qui l’impatto iniziale fu del tutto casuale e frutto di perlustrazioni e di ritirate per altro diversamente orientate. Si cominciò intorno alle 8 e fu contesa la posizione di Madonna della Scoperta, una chiesetta con un convento intorno a qualche casetta di ‘villici’ e nulla di più. Si andò su e giù per il crinale da ovest a est e viceversa, senza risolvere nulla, ma anche senza che i sardi conquistassero la posizione. Dopo le due, l’altura fu abbandonata dagli austriaci che si ritirarono verso Pozzolengo come conseguenza del cedimento della vicina Solferino. In realtà, qui accadde anche altro, seppur indirettamente. Come si può vedere dalla figura 2, la divisione Fanti, chiesta a sostegno da Napoleone, fu deviata dal re su Madonna della Scoperta e poi, senza il suo comandante, su San Martino (brigata Aosta, gloriosissima). Gli austriaci impegnati al Centro-Nord indebolirono sicuramente l’asse centrale, decisivo per l’andamento generale della battaglia. La Marmora che prese in mano la situazione a Madonna della Scoperta per ordine del Re a metà giornata, separò le sue truppe e non giunse mai a San Martino, trattenuto dal fango, dalla stanchezza e da poca convinzione. Qualche colpo di cannone fu sparato da Solferino verso Madonna della Scoperta, ma non creò disturbi e cambiò ben poco.
L’asse Solferino-Cavriana fu a tutti gli effetti quello centrale e decisivo. Qui si cominciò molto presto (intorno alle 4) ed i Francesi avanzarono con furia lungo le creste delle prime colline moreniche che si affacciano sulla pianura. Qui accorse Napoleone III con la sua guardia. Qui dominando il Sud (Niel) e le truppe, ferme nella pianura di Medole, del Mac Mahon, egli di fatto comprese di che cosa si trattava (uno scontro generale) e diresse a tutti gli effetti la battaglia, esponendosi in prima persona e galvanizzando così le sue truppe. Intorno alle undici si arrivò al combattimento decisivo e cruciale nella gola di Solferino. Tutto il crinale ad u era saldamente tenuto dalle truppe austriache ben sistemate, trincerate e con adeguati cannoni oltre che più fresche rispetto a quelle dei nemici, ovviamente. Nella conca di Solferino, nei momenti fondamentali, i francesi poterono contare su 34.000 uomini circa, di cui 14.000 erano rappresentati dalla ‘mitica’ guardia imperiale, con un centinaio di cannoni. Di fronte, gli austriaci poterono schierare effettivamente, oltre ad un centinaio di cannoni (pure loro), più o meno altrettanti uomini visto il ritardo col quale lo Zobel (16.000 uomini in totale) arrivò sul posto. Difficile fare calcoli precisi. Resta il fatto che qui Napoleone III prese la decisione fondamentale e, con grande rischio, lanciò la sua guardia all’attacco della famosa ‘Rocca’ attraverso il monte dei cipressi, preso da sinistra, da destra e dal centro. I ‘volteggiatori’, freschi, snelli, liberi, mobili, fecero miracoli e conquistarono il monte e la rocca per discendere poi nella piana del municipio (castello) e circondare con le altre truppe del primo corpo il cimitero, costringendo i suoi occupanti alla fuga che fu, in questi due ultimi casi, veramente precipitosa.
Pur essendo finita non era però finita. Lungo le creste collinari fra San Cassiano e Monte Fontana, in vista di Cavriana, vi erano ancora tanti e muniti austriaci (15.000 i freschi). Allora, Napoleone, visto che il Niel in pianura si reggeva bene, ordinò a Mac Mahon di colpire di fianco e dal basso il nemico. L’operazione riuscì ed alle cinque era tutto finito (non ci fu inseguimento: mah…), con l’imperatore francese che entrava a Cavriana ed a Villa Mirra e che, si può dire, prendesse il posto di quello austriaco che se n’era andato da un paio d’ore.
L’ultimo asse della battaglia, quello a Sud, è una sorta di asse dimenticato dalla storia anche se fu di estrema importanza. Ancora di notte, i francesi puntarono su Medole, piccolo paese di pianura non lontano dai colli di Solferino, separato da questi da una vasta piana a brughiera, dove si combatté molto e disordinatamente. Conquistato a fatica l’abitato come al solito fortificato dagli austriaci, gli scontri si trasferirono quasi subito (siamo alle nove) in quello che ho definito il ‘triangolo della morte’ (molto stretto e lungo) e cioè a Rebecco, Baite e Cà Nuova, in comune di Guidizzolo, sempre nella pianura più piana a qualche chilometro di distanza. Per tutto il resto della giornata lo scontro non si mosse più da questi medesimi centri abitati. Fra attacchi e contrattacchi, cannonate (tante), assalti alla baionetta, interventi della cavalleria fu una lotta continua ed estremamente accanita. Verso le due, i francesi tennero ferme le posizioni occupate e gli austriaci di fatto si esaurirono nei loro vari sforzi di riprenderle. Quando arrivò il temporale, i tentativi si stavano ormai esaurendo ed a tutti gli effetti cessarono. Ognuno rimase, sfinito, a casa sua, per così dire. Gli austriaci liberarono Guidizzolo per il ponte di Goito (sul Mincio) alle dieci di sera, portandosi via, come loro consuetudine, tutto ciò che potevano. I comandanti dei francesi Niel e Canrobert dormirono nella chiesa di Rebecco.
La nostra battaglia, articolata su tre crinali ed un fronte, fu comunque un’unica battaglia, combattuta in parallelo per gli stessi scopi (per quanto naturalmente opposti) da forze comuni ed in grado di sostenersi reciprocamente, lottando sotto le medesime insegne. Dal punto di vista delle perdite umane, una stima compiuta metodologicamente al ribasso indica la cifra complessiva di oltre 20.000 morti, più 97.000 tra feriti e malati (a causa della battaglia). Senza aspirare ad alcuna impossibile precisione, appare comunque evidente che Solferino fu un’autentica carneficina e che dei circa 245.000 uomini che la combatterono uno su due fu a vario titolo una sua vittima. Come a Francesco Giuseppe, anche a Napoleone, questo non uscì più di testa e quando si orientò verso la pace aveva ben nitido di fronte a sé il quadro delle perdite subite ed il sangue dei tanti giovani che si erano immolati sul campo di guerra per lui.